Nell’abbaglio del mattino tropicale, un piccolo sambuco solca le acque di quel braccio di mare. Il viaggiatore sfila la camicia e mostra i muscoli al vento, subito richiamato dal vecchio nacuda al timone: – Italiano, ti bruci!

In lontananza, un chiaro colore spezza il tenue andare delle onde bucate da delfini giocolieri. E’ Durghella, la prima isola del grande arcipelago che piatta viene incontro al largo di Massawa. Potrei ancora incontrare un naufrago, penso io, e finanche una capanna tra arbusti di mangrovie e tizzoni sulla brace. Nessun bisogno di civilta’ appare necessario. Piu’ avanti c’è l’isola di Dahlak Kebir, la Grande. Sono millecinquecento musulmani, e insieme con questi case di legno e una clinica in cemento quale strano segno di modernità. Ma il luogo più famoso è l’ufficio dei telefoni, invaso da pecore e materassi e reti per i letti. Regi Telefoni reca ancora la sbiadita insegna di un tempo fermo al passato, forse, soltanto per me. L’operatore arrota l’antica manovella coloniale e collega qualche cliente al mondo, ma sempre il logoro apparato si blocca tra mille scintille e irriverenti fruscii. Allora Kibreab, l’impiegato, il cui nome si traduce Grande per Dio, ti osserva smarrito. Quindi ride, e infine piange di piacere. Lui e’ soltanto un pescatore. In ogni caso, riesco a fare il mio dovere verso i cari in Italia.

Da Jemhilé raggiungo a piedi il Luul Resort Hotel sul mare, attraverso un bosco d’acacie, e mentre il cielo e’ fuoco nella bellezza del tramonto. L’albergo è proprietà del governo, manca il telefono per i clienti e la luce è fornita da un generatore fino alla mezzanotte. L’indomani gusto la pasta al pomodoro di una cucina famigliare, e poi pesce catturato con le mani e cotto al limone sotto il sole. E’ vero, tutto potrebbe essere piu’ professionale. Ma questa e’ la contraddizione e la meraviglia di una terra lontana, amata e conosciuta, chiamata Africa.

Dagli appunti del mio viaggio per scrivere la parte africana de La Voce del Maestrale.

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