La Voce del Maestrale nella recensione di Maria Gargotta, scrittrice napoletana di origini siciliane e docente presso il Liceo Artistico Statale di Napoli. 

Mio padre era di Termini Imerese e, anche se per pochi anni giovanili, aveva lavorato in un mulino del suo paese; quella pasta bianca, di cui mi parlava spesso, che li aveva sfamati durante la guerra, gli era rimasta dentro. Suo fratello Nino nel pastificio ci aveva lavorato tutta la vita. Questo breve antefatto dal sapore personale, che mi si vorrà perdonare, spiega l'effetto che ha avuto per me la scoperta del romanzo di Nunzio Russo La Voce del Maestrale, giunto ormai alla sua quarta edizione e vincitore di recente del Premio Elmo (2014), incontrato, come per caso, nella sua prima edizione su una bancarella della mia Napoli; il sottotitolo Storia di pastai siciliani ha improvvisamente richiamato alla memoria quel pastificio familiare di Termini Imerese, dove attualmente sorge un negozio di ferramenta.

Ma, se la copertina ha rappresentato una sorta di richiamo della foresta, la lettura del romanzo è stata una rivelazione sorprendente, perché, nella giusta mistione di storia e fantasia, propone al lettore un'avventura fatta di emozioni forti, di eroismi e di grandi idealità di un passato che, pur apparendo oggi lontano anni-luce, appartiene alla nostra storia più autentica. Infatti, il romanzo di Nunzio Russo attraversa, con forza e delicatezza ad un tempo, le vicende nazionali, sociali e sentimentali, di personaggi, congiunti da una grande saga familiare e da intense passioni.

Gli anni cruciali – i più intricati e nodali del nostro Paese – che dal nazionalismo colonialista, seguito alle idealità tradite del Risogimento di fine Ottocento, giunge al secondo dopoguerra, accompagnano con passo leggero e trascinatore, nonostante gli eventi tragici, le azioni e le scelte della famiglia Musumeci, imprenditori coraggiosi, che dalla produzione di farina si trasformano, non senza difficoltà economiche, in pastai, capaci di imporsi a livello nazionale.

La lotta, che ha qualcosa di epico, tra i valori del lavoro onesto e dal volto umano, che sa privilegiare i rapporti sulle aride logiche economiche, e la malavita, che, seppure nel lungo arco di tempo, attraversano la narrazione, cambia forma e comportamenti, riassume sempre e comunque in sé le forze di un potere arrogante, che intercetta e distrugge ogni possibile sviluppo collettivo. Lungi dall'assumere un aspetto manicheo e meccanico, tale lotta, tra forze sociali positive e costruttive e quelle negative e distruttive, si inserisce e si consuma nel tessuto storico, che di volta in volta tesse la trama di un estremo meridione, sacrificato e abbandonato a un mancato riscatto.

I personaggi, legati da vincoli di sangue o di amicizia, che disegnano la vicenda complessa di una saga familiare di imprenditori siciliani, trovano in questa lotta la loro ragione di operare, di combattere, magari talvolta in maniera quasi donchisciottesca, ma che non rinunzia, a costo della vita, come nel caso del capostipite, il barone di Mezzocannolo, alla propria epica battaglia quotidiana per dar vita a una visione, che nei vincoli familiari trova i propri punti di forza e nell'investimento, talora azzardato, del denaro, prova a inventare lavoro e sviluppo.

La famiglia Musumeci, proprietaria di feudi fertili e baciati dal sole caldo del sud, inizia un'avventura rischiosa quanto avvincente, quando si avvia sulla strada dell'imprenditoria, con la produzione della pasta, offrendo un'opportunità umana e sociale di grande rilievo a quella fetta di terra siciliana posta, in maniera non b

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