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Nunzio Russo

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Nell’abbaglio del mattino tropicale, un piccolo sambuco solca le acque di quel braccio di mare. Il viaggiatore sfila la camicia e mostra i muscoli al vento, subito richiamato dal vecchio nacuda al timone: – Italiano, ti bruci!

In lontananza, un chiaro colore spezza il tenue andare delle onde bucate da delfini giocolieri. E’ Durghella, la prima isola del grande arcipelago che piatta viene incontro al largo di Massawa. Potrei ancora incontrare un naufrago, penso io, e finanche una capanna tra arbusti di mangrovie e tizzoni sulla brace. Nessun bisogno di civilta’ appare necessario. Piu’ avanti c’è l’isola di Dahlak Kebir, la Grande. Sono millecinquecento musulmani, e insieme con questi case di legno e una clinica in cemento quale strano segno di modernità. Ma il luogo più famoso è l’ufficio dei telefoni, invaso da pecore e materassi e reti per i letti. Regi Telefoni reca ancora la sbiadita insegna di un tempo fermo al passato, forse, soltanto per me. L’operatore arrota l’antica manovella coloniale e collega qualche cliente al mondo, ma sempre il logoro apparato si blocca tra mille scintille e irriverenti fruscii. Allora Kibreab, l’impiegato, il cui nome si traduce Grande per Dio, ti osserva smarrito. Quindi ride, e infine piange di piacere. Lui e’ soltanto un pescatore. In ogni caso, riesco a fare il mio dovere verso i cari in Italia.

Da Jemhilé raggiungo a piedi il Luul Resort Hotel sul mare, attraverso un bosco d’acacie, e mentre il cielo e’ fuoco nella bellezza del tramonto. L’albergo è proprietà del governo, manca il telefono per i clienti e la luce è fornita da un generatore fino alla mezzanotte. L’indomani gusto la pasta al pomodoro di una cucina famigliare, e poi pesce catturato con le mani e cotto al limone sotto il sole. E’ vero, tutto potrebbe essere piu’ professionale. Ma questa e’ la contraddizione e la meraviglia di una terra lontana, amata e conosciuta, chiamata Africa.

Dagli appunti del mio viaggio per scrivere la parte africana de La Voce del Maestrale.

Alle volte e come una tempesta il ricordo di una storia ti assale. Poi non ti abbandona piu’, se la faccenda e’ stata una bella cosa. In questo modo e’ tornata alla memoria l’essenza di una terra lontana, improvvisa e simile ad una visione.

Mi ricordo del quartiere di Ghezzabanda. Una scassata millecento gialla della Fiat correva in quella direzione. Il tassista conduceva due persone. L’uomo oscurava la luce del parabrezza, e finanche era troppo grasso per un’auto degli anni cinquanta e giunta fino al duemila. Portava curati baffetti e parlava in italiano.

Ero capitato ad Asmara, per visitare e studiare la storia di quei posti, ricercando verita’ per l’architettura del romanzo che avevo in mente. Accanto a me, sul sedile posteriore, stava una signora di Torino. Lei cercava la casa in cui era nata. L’avevo conosciuta nell’ufficio dell’agente di viaggio, che organizzava escursioni a Cheren e Metara. Era magra e piuttoso allegra Piera, e poi aveva un nasino all’insu’ e portava i capelli bianchi tagliati corti. Al ritorno, curioso ero andato con lei. L’abitazione non c’era piu’.

– Chissa’ quando e’ stata demolita -, disse la donna. E nei suoi occhi fece capolino la tristezza.

– Mi dispiace -, dissi io.

– Non importa. In ogni caso, e’ qui che mia madre ha partorito -. Aveva ancora l’ingiallito certificato di battesimo, che recava data di nascita e paternita’. Lo mostro’. Appariva orgogliosa d’essere asmarina. 

E’ stato quello l’istante in cui e’ nato il mio amore per l’Eritrea. Ognuno ha la sua Africa.

Nota. Sono questi i miei appunti, mentre viaggiavo in lungo e largo per l’Eritrea. In quel periodo pochi ne parlavano, ma vi assicuro che questa è una terra stupenda, e dove tutto o quasi parla d’Italia. E poi, gli eritrei ci vogliono bene. Anche a questo popolo, per tanti aspetti nostro fratello, ho dedicato la stesura de La Voce del Maestrale

Alle memorie di Siracusa e’ bello ritornare nei pensieri. Le più antiche hanno sfidato i millenni e vissuto nell’eternità, come quelle del tragico amore di Arete e Dionisio. Arete figlia d’Ermocrate, bella e fragile, sgomenta e coraggiosa, cedevole e sfacciata. E poi Dionisio, Dionisio di Siracusa, l’uomo dall’invincibile armatura che difese lo Stato insieme con lo scudo, e poi lo stesso condusse verso impossibili conquiste e scagliando lontano la tremenda lancia del più grande esercito dell’antichità.
 
Ma ci piace immaginare ancora lui, Dionisio, mentre si dilunga a guardare il mare nell’imbrunire del rosso al tramonto, indossando una clamide, e tenendo per mano la sua Arete e sognando di essere domani finanche quel che fu nei fatti. Poeta e drammaturgo e sensibile amante, per sempre legato nell’intimo al perduto unico amore. Da qui parte la storia e questa diventa mito.
 
Era il 412 A. C.., e quegli eventi segnarono un uomo e la sua donna e i destini di una nazione. Siracusa che, addestrata al coraggio, combatté la potenza di Cartagine, e poi governò l’Italia fino all’Alto Adriatico e divenne il “…più gran dominio d’Europa prima di quello macedone, e quindi una delle tappe miliari nello sviluppo dell’idea stessa di Stato territoriale nel mondo greco.”. (cit. Domenico Musu, Storia Greca).
 
Abbiamo incontrato Giuseppe Zanghì, segretario regionale di Fiaip, l’autorevole federazione degli agenti immobiliari italiani. A lui, cittadino di Siracusa, abbiamo chiesto di descrivere la sua città.
 
“Siracusa, nel Mediterraneo, è crocevia di mitologie, culture, storie, lingue e popoli diversi. Fondata nel VIII° secolo a.c. da coloni greci, è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità nel 2005. Cicerone la definì la più bella di tutte le città greche. Ai giorni nostri la scopriamo importante polo industriale, mentre guarda con rinnovato interesse al turismo. D’altronde i siti archeologici, le scogliere di bianco calcare, i castelli, i palazzi barocchi e i porti naturali già parlano di un luogo unico e stupendo.”.  

Ogni anno è la festa patronale con più devoti al seguito, la terza nel mondo. Stiamo parlando dell’omaggio di Catania alla sua Santa Patrona: S. Agata. La data fra il 3 e il 5 febbraio.

Agata nacque da una famiglia ricca e nobile verso il 230. Essa visse a Catania con la sua famiglia. Secondo la tradizione cattolica S. Agata si consacrò a Dio all’età di 15 anni circa, ma studi storici approfonditi rivelarono un’età non inferiore ai 21 anni: non prima di quest’età, infatti, una ragazza poteva essere consacrata diaconessa come effettivamente era Agata, cosa documentata dalla tradizione orale di Catania, dai documenti scritti narranti il suo martirio e dalle raffigurazioni iconografiche visitabili a Ravenna, con particolare riferimento alla tunica bianca e al pallio rosso. Inoltre, da un punto di vista giuridico, Agata aveva il titolo di "proprietaria di poderi", in altre parole di beni immobili. Per avere questo titolo le leggi del’impero romano pretendevano il raggiungimento del ventunesimo anno d’età. La santa morì martire sui carboni ardenti, dopo un ingiusto processo chiuso con un’insurrezione popolare contro Quinziano, che dovette fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla catanese.

“La nostra città tutta è devota alla sua santa patrona, la cui storia e martirio sono esempio ancora oggi di dedizione e impegno in favore delle giuste cause “. Ha dichiarato Carmelo Mazzeppi, presidente Provinciale Fiaip – Federazione Italiana Agenti Immobiliari Professionali di Catania, commentando questa bella pagina dei Quaderni di Sicilia.

 

Di Indro Montanelli abbiamo letto molto, e finanche abbiamo assistito a critiche e violenze nei confronti della sua persona, perché era schietto e raccontava la storia come oggettiva verità. Era un giornalista e uno storico con il gusto dell’innovatore. Per lui la vera cronaca del passato era una scienza, che utilizzava la pienezza di tutte le fonti (anche orali), nel loro dispiegarsi nel tempo, per definire l’evoluzione della Società e della Cultura. E per questo che propongo un breve stralcio del fondo a sua firma, pubblicato sul Giornale tanti anni addietro, nel 1983… ricorrendo il 4 novembre, giorno della nostra definita unità come Nazione.


"SALUTO AL RE…non so che Re sarebbe stato se fosse rimasto Re, so che nessuno lo fu più e meglio di lui dal giorno in cui smise di esserlo, e da allora sono trascorsi trentasette lunghi anni. Nessuna dinastia, credo, neanche quella degli Hohenzollern, ha avuto un epigono che all’impegno di onorarne il nome e il ricordo abbia saputo fare tanto sacrificio della propria vita, e con piena coscienza della sua assoluta inutilità. Dei suoi antenati, quello a cui più somigliava è Carlo Alberto: se non nel carattere, nella sventura e nella dignità con cui l’ha portata. Forse è anche per questo che scelse, come terra di esilio, Il Portogallo. "Come i sogni, lo avevamo dimenticato". Ci volevano l’agonia e la morte per riportarcelo alla memoria. Ora ci auguriamo che l’Italia repubblicana senta il dovere di rendere un sommesso omaggio a questo ultimo Savoia, il più incolpevole e sfortunato di tutti, accogliendone le ceneri a Superga, come egli stesso ha desiderato e richiesto.
E’ un pezzo della nostra storia che finisce con lui. E chi rinnega la propria storia, bella o brutta che sia – ma non è mai né tutta bella, né tutta brutta – rinnega se stesso. (Indro Montanelli)"

 
 

 

 

 

 

 

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